La scorsa settimana il blogger Lorenzo Santaroni, alias lorloverse (potere seguirlo sulla sua pagina Instagram), mi ha proposto un’intervista dedicata all’anime Assassination Classroom, del quale ho scritto i dialoghi italiani insieme a Simone Lupinacci, Lydia Corbelli, Annalisa Longo e Laura Cherubelli. È stata un’esperienza nuova e molto stimolante ed è per questo che ho scambiato con piacere due chiacchiere con lui. Ve la ripropongo qui in versione integrale.
Può raccontarci come è avvenuta a livello pratico la stesura dei dialoghi della serie? A quali episodi ha lavorato?
In totale, fra prima e seconda stagione, ho adattato una decina di episodi. A livello tecnico la stesura dei dialoghi ha seguito lo stesso iter delle altre serie di animazione a cui ho lavorato nel corso degli anni. All’inizio di ogni progetto seguo più o meno lo stesso “rituale”. Ho bisogno di prendermi qualche ora di studio del materiale che mi viene fornito o che trovo in rete per cercare di impostare il lavoro nel miglior modo possibile. Una volta preparati tutti i file di produzione, capite le pronunce, i termini ricorrenti, le linee editoriali da seguire e stampato l’immancabile foglio con volti e nomi dei personaggi, si parte. Da questo momento in poi diventano fondamentali alcuni fattori. Uno di questi è, senza dubbio, la fedeltà all’originale, che tuttavia non deve diventare un’ossessione perché si tratta pur sempre di un lavoro di adattamento, non di traduzione. Quindi è importante che i dialoghi siano comprensibili, che i personaggi comunichino fra loro usando espressioni verosimili e soprattutto che “si parlino”. Per quanto riguarda il mio lavoro nello specifico ci sono due cose che ritengo necessarie: la prima è evitare il più possibile costruzioni sintattiche strane per il solo gusto di aderire a tutti i costi all’originale; la seconda è scrivere in modo da aiutare i colleghi a non recitare nel cosiddetto doppiaggese, il “mostro cattivo” che porta i dialoghi doppiati a risultare tutti simili fra loro, appiattendo la recitazione e limitando le potenzialità espressive dei personaggi.

Ci sono curiosità legate alla scrittura delle battute dei membri della 3-E?
Non so se possano definirsi vere e proprie curiosità ma durante il lavoro preparatorio ho cercato di cogliere il più possibile il carattere dei personaggi e di utilizzare diversi registri di linguaggio a seconda delle personalità e dei temperamenti. Chiaramente l’obiettivo (ma anche la sfida) è creare il giusto equilibrio tra la fedeltà alla lingua originale e la ricerca del termine più adatto a comunicare un certo tipo di intenzione o di emozione, tenendo conto del sincrono. Spesso mi accorgo che è proprio questa continua ricerca a prolungare più del dovuto i miei tempi di stesura di un episodio. Sono uno spettatore anch’io e mi sentirei in difetto nel fornire al pubblico la scelta più banale o, in generale, del materiale che non sia frutto di un processo creativo.
Quale personaggio, secondo il suo parere, ha le battute più ostiche da rendere? Perché?
In questo anime non è tanto il personaggio, quanto la battuta in sé ad essere ostica, a volte. Ci sono tematiche molto particolari e molto complesse. Si arriva a parlare di fisica quantistica, ci sono citazioni molto importanti e non sempre la resa letterale dal giapponese all’italiano avrebbe aiutato il nostro pubblico a comprendere questi concetti. Abbiamo lavorato di fioretto per andare incontro alle esigenze del prodotto e far sì che la storia avesse una sua dimensione narrativa.
C’è una battuta scritta da lei che ricorda per qualche motivo particolare?
Ricordo un paio di episodi tratti dalla seconda stagione, quelli relativi agli esami dei ragazzi della 3-E, in cui è stato necessario un lavoro extra, anche di ricerca. Purtroppo siamo sempre molto stretti con le consegne e il rischio di cedere alla frustrazione è sempre dietro l’angolo, ma è proprio questa necessità di approfondire che mi affascina, del mestiere del dialoghista. Mi sono trovato di fronte a complicate spiegazioni riguardanti termini matematici come “relazione di ricorrenza” che per me, che sono stato sempre scarsissimo in quella materia, erano chiari quasi quanto un testo in arabo. Più di tutti, però, mi ha dato filo da torcere il lungo ragionamento che Karma svolge, durante gli esami scritti, nel tentativo di risolvere un intricatissimo problema di geometria. Ricordo che il monologo occupava una pagina intera di copione. Quando non ne potevo più, lo lasciavo “decantare” per qualche ora e poi tornavo al computer per revisionarlo e capire se ci fossero ancora delle criticità. In quel caso la complessità era data dalla tematica trattata, dai termini tecnici usati in originale ma soprattutto dalla resa italiana, che doveva essere più chiara e fluida possibile.
Quali sono stati i punti di riferimento linguistici e culturali durante la stesura dei dialoghi della serie?
Non avevamo particolari punti di riferimento linguistici e culturali anche perché il lavoro dei traduttori dal giapponese è stato molto meticoloso e le direttive erano di attenersi il più possibile (e giustamente, aggiungerei) a quanto veniva detto in lingua originale. In generale, quando scrivo i dialoghi, cerco sempre di lasciarmi ispirare dalla ricchezza dei vocaboli esistenti nella lingua italiana. A parità di significato due parole diverse possono suscitare impatti emotivi differenti a seconda delle immagini che riescono a evocare. Dipende tutto dall’emozione che abbiamo bisogno di comunicare allo spettatore. Un’altra fonte di ispirazione, sembrerà banale, ma è la vita di tutti i giorni, quindi l’osservazione costante del modo in cui parlano le persone che mi circondano o che lavorano e vivono in contesti completamente diversi dal mio. Ho la fortuna di viaggiare molto per lavoro e di avvicinare molte anime diverse, ma in realtà anche quando sono libero amo sedermi in un bar o andare al mercato e ascoltare i discorsi della gente. Mi diverto a cogliere i comportamenti, il linguaggio del corpo e i diversi modi di comunicare. Molto spesso trovo anche degli spunti interessanti da portare nel lavoro. La più grande sorpresa è stata notare come questa pratica, che ho sempre svolto in qualità di attore, sia altrettanto utile per il mestiere di dialoghista.
Qual è la linea di dialogo che più l’ha colpita tra quelle adattate da lei?
Di sicuro quella che ho già citato, relativa al monologo di Karma, ma anche molti momenti nei quali Korosensei si apre ai ragazzi offrendo loro spunti e insegnamenti di vita di grande profondità. In un paio di occasioni mi sono emozionato e non capita spesso. Credo che gli autori abbiano fatto un lavoro eccellente nel dosare leggerezza e intensità di contenuti. È bello sapere che i più giovani possono godere di un prodotto che riesce a toccare certe corde in una società sempre più distratta e superficiale.

La serie si muove su piani tanto ironici quanto profondi e toccanti. Come ha gestito e affrontato questa necessità di utilizzare repentini cambi di colore?
Ho affrontato questa necessità con grande naturalezza. Per formazione non mi sono mai definito né un attore brillante né drammatico. Ho sempre cercato, con piacere, di spaziare da un registro all’altro. Di conseguenza, così come avviene quando sono in scena o doppio, anche nella scrittura mi piace creare dei “livelli” che permettano di mostrare tutte le sfaccettature di un personaggio. È una cosa che avviene anche nella vita di tutti i giorni, dopotutto. A seconda di chi abbiamo davanti, ci autorizziamo a rivelare elementi diversi della nostra personalità: ci sono persone che sollecitano la nostra parte più infantile; altre la parte più adolescenziale; altre ancora l’adulto saggio o il figlio che siamo stati e che è in ognuno di noi.
Cosa vuol dire per lei essere l’artefice dei dialoghi italiani di Nagisa e dei suoi compagni?
Significa, in primis, provare un grande senso di responsabilità verso il pubblico che ama questi prodotti e che ha piacere di ascoltarli nella nostra lingua. Ma anche verso i colleghi, i direttori e i fonici che, in sala di doppiaggio, devono disporre di un testo chiaro, comprensibile, preciso, che permetta loro di arrivare al risultato migliore nel minor tempo possibile. E questo non è un dettaglio secondario perché purtroppo abbiamo sempre meno tempo per fare le cose per bene. Se il lavoro del dialoghista, che è il primo della filiera, non viene svolto correttamente, le conseguenze si riversano a cascata su coloro che eseguiranno i passaggi successivi. I problemi tenderanno ad accumularsi e nella squadra di lavoro potrebbero emergere fatica, stress e malcontento. Per questo è opportuno che il copione sia il più possibile preciso nei codici che utilizziamo, di facile lettura e “recitabile”, perché il doppiatore in sala ha pochissimi minuti per cogliere la scena, farla sua e interpretarla. In ultimo luogo, aver lavorato ai dialoghi di Assassination Classroom, significa anche la soddisfazione di essere stato coinvolto in un progetto che, a mio personalissimo giudizio, si è guadagnato un posto tra gli anime più interessanti degli ultimi anni.

Quanto ha tolto e quanto ha dato l’adattamento italiano alla storia di Korosensei? Secondo lei, l’edizione italiana arricchisce o svilisce l’opera originale?
Non credo che l’opera abbia risentito dell’intervento del doppiaggio, anzi, penso le sia stata resa giustizia. A mio modo di vedere un dialogo ben scritto non deve essere solo coerente nella trasposizione linguistica, ma deve anche riuscire a ricreare l’atmosfera e trasmettere il gusto che gli autori hanno cercato di infondere. Il più delle volte, “arricchire” è più un tentativo “egoico” di voler mettere a tutti i costi il proprio marchio di fabbrica sull’opera, che non un’effettiva esigenza. In Assassination Classroom abbiamo avuto la fortuna di lavorare su un prodotto ben scritto e ben congegnato già a partire dal giapponese. In altri casi, invece, dove la qualità è più scadente, è necessario uno sforzo extra per colmare le lacune lasciate dagli autori sia dal punto linguistico sia dal punto di vista narrativo.
Quale battuta avrebbe voluto assolutamente adattare? Come l’avrebbe adattata se se ne fosse occupato lei?
Credo siano più che sufficienti quelle che il destino mi ha riservato. Ho la consapevolezza di aver lavorato a un anime che, a giudicare dal riscontro del pubblico, è stato molto apprezzato. Dopodiché, come succede sempre, ringrazio per l’opportunità, recupero i miei strumenti e mi rimetto in viaggio verso nuove avventure.
Alessandro Germano