Se c’è una rivista che ha davvero segnato la mia vita da ascoltatore musicale è stata proprio Q. L’avevo scoperta nei magici anni delle superiori, quelli in cui andavo in giro conciato come Noel Gallagher, con i capelli in giù e un look vagamente Brit. Giravo per il centro di Torino e sognavo l’Inghilterra delle band indie, dei locali e della musica suonata nelle cantine perché intorno non vedevo altro, se non il grigiore cittadino. La mia città era così quando avevo 15/16 anni. O almeno, io la vedevo così: una sacca di smog fredda e buia senza niente di davvero interessante di offrire, a parte la Juventus. Torino e Manchester, a proposito di Gallagher, si somigliavano ancora molto, vent’anni fa.
In un’edicola di un noto centro commerciale scovai un angolo dedicato alle riviste musicali provenienti dall’estero. C’erano già i vari Mojo, Uncut e NME, ma quest’ultimo, pur restando un punto di riferimento perché metteva sempre in copertina i miei divi del BritPop, non mi attirava quanto l’altra rivista dal titolo essenziale, con quel logo vagamente glamour. Q. Costavano un botto quei cacchio di giornali: 8/9 Euro l’uno nei primi anni della moneta unica. Eppure era un sacrificio che facevo senza troppe paranoie perché, pur non avendo ancora idea di come potessero suonare quei dischi, era bello sognare e respirare quell’atmosfera così lontana dal mio quotidiano. La cosa bella, poi, non immaginando che un giorno potesse esistere qualcosa di simile a Spotify, era che quei dischi restavano nella mia mente fino a quando non capitava di trovarli in qualche postazione di ascolto di Mediaworld. Quando capitava. Sì, quelle dove premevi il pulsante e ascoltavi i CD da un paio di rigide e zozzissime super cuffie legate saldamente con un cavo di ferro a quella specie di tabernacolo musicale.
Anni dopo, Q divenne il compagno di viaggio preferito durante i miei numerosi spostamenti in terra britannica, dove finalmente ebbi modo di respirare l’energia artistica e sentirmi una cazzo di rockstar senza neanche uno straccio di band. A Londra, a Oxford Street, avevo comprato alcune copie e mi ero reso conto che in Inghilterra Q e tanti altri giornali musicali venivano venduti con allegate delle compilation dai titoli altisonanti come “10 band emergenti che arrivano dagli USA” o “I talenti britannici di quest’anno”. E un brano era meglio dell’altro. Con quei suoni così diversi, con quelle chitarre. Li ho ancora quei dischi e guai a chi me li tocca. Ho persino creato una copia di sicurezza per paura di perderli.
Sulle sue pagine ho scoperto l’esistenza di artisti come PJ Harvey, Florence, Tinie Tempah, The Vaccines, The National, Vampire Weekend, Broken Bell, Sigur Ros, Phoenix e tantissimi altri. Poi è arrivato il digitale e la crisi dell’editoria è esplosa in tutta la sua gravità. Un paio di volte ho scaricato copie pirata di Q negli scorsi anni, ma davvero non sapevo più dove acquistarlo e dove farlo senza dovermi vendere un rene. Poi è arrivato Readly, il servizio in abbonamento delle riviste di tutto il mondo in versione digitale, e il mio senso di colpa ha iniziato a dipanarsi.
Finché è arrivato il tristissimo annuncio del direttore del giornale Ted Kessler: “La pandemia ci ha stroncato”. Dopo 34 anni chiude la rivista musicale più fica, quella con più recensioni, con le interviste più lunghe e le cover più belle. Se ne va un modo sano, affascinante, e in un certo senso anche misterioso, di conoscere le novità della musica. Raccogliere la sua eredità sarà praticamente impossibile, perché è il mondo che quel giornale rappresentava a non esistere più.