
La versione italiana della serie Vis à vis ha una storia lunga e travagliata che ha trovato il suo epilogo quando nel 2018/2019 è stata definitivamente doppiata in tutte le quattro stagioni.
Quando arrivai in sala ero contento di prendere parte ad una serie TV. Non ho mai fatto mistero dell’amore che nutro verso questo genere. La cosa che apprezzo di più, da spettatore, è quella che Francesco Casetti, semiologo e critico cinematografico, chiama “estetica della ripetizione”. Per farla semplice: il senso di rassicurante di piacere che si prova quando uno schema piacevole si ripete allo stesso modo, senza sorprese. Il modello che fidelizza il pubblico delle serie TV è quello che propone personaggi accattivanti in cui rispecchiarsi (o tenersi lontano) che accrescano la curiosità di conoscere, di volta in volta, cosa accadrà loro nel prossimo frammento di storia.
Anche da addetto ai lavori il piacere è grosso modo lo stesso. La sfida è sempre quella di tenere fede al lavoro che ha fatto l’attore originale, ben sapendo che riproporre in pochi minuti quello che lui ha preparato in giorni di lavorazione sul set è il primo grande handicap del mestiere del doppiaggio. Per farlo al meglio delle mie possibilità cerco sempre di tenere d’occhio l’evoluzione del personaggio che, soprattutto nella serialità moderna, compie percorso interiore che lo porta ad essere diverso dalla prima alla sua ultima apparizione.
Fino a una trentina di anni fa, nel mondo della serie, il mantra era: “Trova l’eroe, mantienilo tale e ponilo di fronte a nuove sfide episodio dopo episodio, senza mai stravolgere la sua vita. Fa’ in modo che qualsiasi cosa gli capiti non intacchi mai i suoi punti fermi e che ogni sera possa ritornare a casa sotto le sue coperte in attesa di una nuova sfida”. La Signora in Giallo, il Tenente Colombo, l’ispettore Derrick, MacGyver, Michael Knight e tantissimi altri hanno questa caratteristiche. Si parla di un’epoca che, per quanto “d’oro”, è ormai preistoria. Oggi i personaggi hanno tutti un’evoluzione. Spesso anche nelle serie a cartoni animati.
Antonio Palacios, interpretato dal magnifico Alberto Velasco, è un personaggio che sembrava nato per essere l’elemento “leggero” di tutta la serie, quello che portava un po’ di ingenuità e candore in un universo, quello del carcere di Cruz del Norte, che non è proprio un luna park. Alla fine, nelle sue fugaci ma costanti apparizioni, attraversa momenti di grande cambiamento, pur restando sempre abbastanza lontano dal filone principale della storia.
Quando mi capita un personaggio così, uno di quelli a cui l’etichetta di scemo del villaggio può essere applicata con estrema facilità, cerco sempre di rimanere cauto perché la “sorpresina” che smonta questo debolissimo castello di carte può essere dietro l’angolo. La cosa più bella è stata ritrovare questa percezione anche nelle parole e nelle indicazioni dei direttori Davide Fumagalli e Claudio Colombo. Cercando di tenere fede il più possibile a ciò che veniva fatto e detto in lingua spagnola, abbiamo cercato di non creare una caricatura ma un personaggio che potesse essere plausibile nell’universo già di per sé precario della storia. Anche perché il rischio era togliere credibilità alle vicende accentuando la percezione per cui “nella realtà uno così, in un posto del genere, se lo magnerebbero vivo”.
Il senso della misura che Alberto Velasco ha mantenuto nella costruzione e nell’evoluzione di questo personaggio sono il miglior ricordo che porterò di questa serie così amata. La sera che lo contattai su Instagram, dopo l’uscita ufficiale italiana, passammo ore a chiacchierare, ridere e scambiarci video e stories. La cosa più bella fu metterlo al corrente del fatto che Vis à Vis, in Italia, stava iniziando ad avere un bel successo, cosa che lo rese talmente contento da promettermi una “capatina” da queste parti.
Prima o poi.