
Per anni ho creduto che la mia città fosse una specie di landa desolata avvolta da una sfera di grigio che soffocava la vita delle persone. L’adolescenza già di per sé è complessa e a peggiorare le cose ci si metteva la Torino di vent’anni fa che non era proprio un quadro rinascimentale. In quegli anni sognavo Roma, la città dei film, quella in cui c’è sempre il sole, quella che quando passavo in auto lungo l’Aurelia per andare in vacanza e mi dicevano “Siamo vicino a Roma” era rappresentata nelle mia mente bambina dai pini marini che scorrevano ai lati del finestrino. Nei primi anni dell’adolescenza mi ritrovavo nelle parole di un poeta suburbano come Max Pezzali che raccontava la provincia sbattendotela in faccia, senza porsi il problema di quanto, nella sua poetica, sapesse essere crudele ma tremendamente vero. La distanza rispetto al mondo in cui “accadevano le cose”, l’inadeguatezza come mantra e quella perenne sensazione di Avrei voluto andare via / quando questa cittadina l’ho sentita stretta addosso / non la credevo più mia che raccontava in una vecchia canzone. Mi sentivo meno solo ascoltando quelle parole, ma ugualmente arrovellato sull’enigma di un’immobilità che ancora oggi, al solo ricordo, mi fa ricomparire davanti agli occhi il grigiore di quei giorni. Che forse, il più delle volte, era più dentro la mia testa che fuori.
Anche se, in effetti, la Torino di fine anni Novanta/inizio anni Duemila non era proprio il massimo. Viveva la stasi tipica dei luoghi in cui tutto è terminato ma nei quali ancora si deve capire cosa fare. Una sorta di terra di nessuno, un Far-West di vecchie fabbriche, zone da riqualificare, servizi risicati e incertezza. Dopo la fissa adolescente per i temi sviscerati dal buon Pezzali è arrivato il Rock. Mi piacevano già i grandi classici: prestissimo andai in fissa per i Beatles, per gli Stones, già mi piacevano gli Zeppelin e i Deep Purple, ma non parlavano ancora il mio stesso linguaggio. Un po’ come il jazz, che puoi capire fino in fondo solo da una certa età in poi. Il genere che parlava maggiormente al mio cuore era il pop/rock britannico del decennio precedente. Se dovessi scegliere un album icona di quei momenti della mia vita, quello che meglio sa descrivere il mio stato d’animo dell’epoca solo con un arpeggio di chitarra, direi senza dubbio The Stone Roses, dell’omonima band.

In realtà apparteneva al decennio ancora precedente rispetto a quello in cui vivevo. In Inghilterra, di fatto, fu il disco che sancì la fine degli anni Ottanta. Noi avevamo il Cosa resterà di Raf, loro se l’erano vista meno bene di noi e in generale preferirono mettere l’accento sul dissenso di una grossa fetta della società verso la politica quindicinale di Margareth Thatcher. Quel disco evocava sobborghi, mattoni rossi, case a due piani costruite con quello che si poteva; nelle atmosfere vedevo le rivolte di piazza, gli agenti che lanciavano lacrimogeni. Anche se nella città dei bogia nen gli agenti in tenuta anti-sommossa li vedevi allo stadio alle partite del Toro o della Juve o in qualche rara manifestazione, la sensazione che vivevo era simile. Una ribellione interna che non riuscivo a condividere con nessuno. Il massimo che riuscivamo ad esprimere, come generazione viziata e rincoglionita da anni di TV e glamour, era qualche sterile manifestazione di piazza contro le riforme scolastiche dei governi Berlusconi e lo scontro ancora più sterile tra i figli della sinistra storica e quelli della borghesia arricchita che si innalzavano dalla melma a suon di griffe, oggetti di valore e tanta apparenza. C’era un disagio sociale in me che non riuscivo a esprimere. Era intorno, lo percepivo, ma non sapevo come codificarlo.
La FIAT era già un ricordo, il berlusconismo aveva cambiato le menti; l’11 settembre il mondo. Ho un’immagine vivida di me in quel periodo, che risale al 2003, all’incirca. All’epoca portavo con me un lettore CD portatile e giravo sempre un paio di auricolari piazzati nelle orecchie. “Per non sentire”, mi dicevo. Un tardo pomeriggio invernale mi trovavo ad una fermata dell’autobus in attesa di tornare a casa e stavo ascoltando proprio i Roses. Un buio che sembrava notte fonda, non un’anima viva in giro, il freddo che entrava nelle ossa e la tabella degli autobus sulla quale era comparso da qualche mese un servizio che, al costo di non so più quanto, informava sugli orari dei passaggi attraverso un SMS. Lo attivai spedendo un messaggio con scritto il numero della fermata e di rimando mi arrivò la risposta del sistema. Ricordo ancora i pixel neri e verdi del Nokia 3330 che formavano la scritta *** SERVIZIO NON DISPONIBILE ***. Fu la summa di tutto quel periodo. Come a dire: “Le cose ci sarebbero anche, il potenziale pure, manca tutto il resto e comunque probabilmente non funzionerebbe un cazzo lo stesso”. E intanto nelle orecchie partivano la voce di Ian Brown e il ritornello di Sugar Spun Sister. She wakes up with the sun / She asked me ‘What is all the fuss?’ / as I gave her more than I thought I would. Per anni ho fatto fatica ad ascoltare quel pezzo (che tra l’altro adoro) senza associarlo a quel pomeriggio.
La mia salvezza erano gli amici. C’erano loro e bastavano a far passare la malinconia, ci si leccava le ferite a vicenda perché tanto eravamo sulla stessa barca. Ognuno diverso dall’altro ma più simili di quanto potessimo pensare. Internet c’era già da qualche anno ma attivai la mia prima connessione casalinga solo nel 2000. Il web di quegli anni era un calco molto grezzo di quello che conosciamo oggi. Iniziavano ad esserci alcune cose interessanti, ma non eravamo ancora pronti per il passaggio definitivo al mondo digitale. Le attese, poi, erano sempre snervanti. Oggi prendo in mano il telefono e il tempo vola via, aspettare può essere fruttuoso. Certo, uno sguardo intorno lo do ancora volentieri anche perché non credo riuscirò mai a “guarire” dal piacere dell’osservare. Scruti, inspiri, cogli e lasci andare, ma un’attesa è pur sempre un’attesa, non c’è niente da fare. È come il Godot di Beckett: dopo un po’ sbarelli, hai bisogno di stimoli sensoriali che non siano sempre e solo gli stessi.
Tutto questo ha contribuito a farmi dire: “Basta, il mio posto non è qui”. Cantieri ovunque, le fantomatiche olimpiadi invernali che sarebbero arrivate ma chissà come. È vero, la città si stava rivoluzionando, stava arrivando la metropolitana che mi avrebbe permesso di percorrere in venti minuti scarsi un tragitto che fino a due, tre anni prima coprivo in un’ora e quaranta per andare a trovare una fidanzatina che abitava alla periferia Sud. Ma non era ciò di cui avevo bisogno. Sono andato a Roma. L’ho vissuta, l’ho respirata, l’ho persino sentita mia per qualche momento. Perché Roma è così: ti si attacca addosso, ti bastona, ti carezza per poi ritornare a battere forte mettendoti davanti a tutti i suoi limiti. Per carità: belli i pini marini, bello stare col giubbotto di jeans a novembre, bello avere il mare vicino. Ma c’era qualcosa che non tornava. Quei luoghi non erano miei. Ed è difficile sentirli tuoi quando vieni da una realtà diversa e soprattutto da un modo di socializzare completamente diverso. A Roma devi essere di Roma o quantomeno riuscire a entrare nelle maglie del tessuto sociale con facilità, altrimenti diventi il disadattato che sta facendo di tutto per fingere di essere all’altezza della situazione.

Poi, come in tutte le vite, ci sono momenti in cui accadono cose talmente grosse e inaspettate da rivoluzionare completamente il tuo mondo. Una di queste mi ha portato a lasciare la mia stanzetta a Monte Mario con un giardino immenso e un parco meraviglioso sotto casa e a tornare nella “diabolica” Torino. Dai 18 anni in poi non mi sono mai fermato, ho sempre viaggiato. In Italia e in Europa, forse proprio per scrollarmi di dosso il grigio, il freddo e la nebbia degli anni precedenti. Ho visto posti meravigliosi, conosciuto un sacco di persone e visto la differenza. A volte quando hai qualcosa, non riesci ad apprezzarla non perché sei un ingrato, ma solo perché magari non hai mai avuto la possibilità di toccare con mano qualcosa di diverso. Non riuscirei a vivere una vita senza mai muovermi dal quartiere in cui sono nato e cresciuto, senza mai varcare la mia zona di comfort. Avrei dei seri problemi di sanità mentale (maggiori rispetto a quelli che già mi riconosco). Anche se devo ammettere di essere parte di una generazione che, solo ed esclusivamente grazie ai voli a basso costo ha potuto visitare l’Europa e spesso anche il mondo. Come quella volta in cui andai e tornai da Stoccolma con 2 Euro. Andavamo al bar a fare colazione e dicevamo: “Vi rendete conto che ‘sto cappuccino costa più del nostro viaggio?!”. Anche il lavoro mi ha portato sempre in giro. Raramente ho lavorato nella mia città. Ho sempre preso aerei, treni, fatto viaggi in auto, visitato posti a bordo di furgoni, pullman.
Poi ho deciso di avere una casa. Abbiamo deciso. Perché in coppia le cose si fanno in due.
Da allora è cambiato qualcosa. Ho ricominciato a vivere maggiormente la mia città, pur dovendo spostarmi quasi quotidianamente per ragioni lavorative. Ma ho la fortuna di abitare in un quartiere popoloso e popolare, una zona non centrale, ma molto densa di servizi, di persone e di attività. Ho ripreso a sentire la vita della città. Le voci delle persone, gli sguardi, le camminate, gli atteggiamenti, vizi (tanti) e virtù (quelle che passa il convento). Mi sono iscritto a gruppi di quartiere, leggo la storia dei luoghi in cui cammino, degli edifici di fronte ai quali parcheggio l’auto. Insomma sono tornato a una dimensione meno globalizzata. La cosa bella in tutto questo è stata riuscire a realizzare quanto, nonostante il mondo di oggi ci dia l’impressione che tutto sia infinitamente grande, sono ancora le peculiarità del piccolo a fare la differenza: il dettaglio, il quartiere, la gente normale, le cose di ogni giorno. Anche se in forma diversa, sanno dare lo stesso livello di “nutrizione” di una conferenza su Ted o di una discussione multiculturale su Clubhouse con cento persone che parlano da tutto il mondo.

Forse era questo che mi mancava in quel lontano 2003 alla fermata dell’autobus: il non sentirmi parte del mondo. Averlo dentro, sentire la spinta, l’impulso, la necessità di espandermi, ma il non poterlo fare. L’essere solo con le mie cacchio di cuffie, la mia cacchio di musica, in un mondo in cui non funziona niente e nel quale non ho un metro di paragone per capire cosa possa esserci di meglio rispetto a quello che ho intorno.
Stamattina mi sono alzato molto presto. Erano le 5:30 o giù di lì. La cena a base di gyros e pita non è il massimo in settimana, specialmente quando ti avvicini al traguardo dei trentacinque e le “spanzate” non le reggi più come all’epoca in cui aspettavi il bus al freddo. Il quartiere dormiva ancora, vedevo le montagne sullo sfondo, i palazzi colorati, l’alba e la prospettiva di sedermi in compagnia della mia tazza di caffè e godere della calma che mi porta la nuova disposizione della scrivania. Nottate di video su YouTube ad osservare come attenti influencer danno vita ai loro desk set-up sono servite. Ora ho un doppio monitor: davanti il testo, sopra il video. Posso scrivere e controllare in tempo reale il sincrono dei labiali dell’anime che sto preparando e il piccolo schermo di Alexa mi ricorda gli impegni in calendario, che martedì a Milano potrebbe fare caldo, che ho un treno all’alba con il tale codice e numero di posto a sedere, che è uscito il nuovo album del cantante che seguo e che le notizie del giorno parlano di ottimismo riguardo la diffusione dei vaccini e di crisi del calcio. Il mondo reale riflesso nel virtuale, insomma. L’infinitamente grande. Poi mi basta voltare la testa di novanta gradi a destra e fuori il mondo veramente reale riprende vita: una nonna trascina un carrello diretta verso il supermercato; una bambina di sette, otto anni con la mantellina fucsia e lo zainetto sta andando a scuola e un anziano cammina a passo lento. Anche il centro sportivo si sta preparando alla nuova giornata. Giusto l’altro ieri mi confrontavo con il suo presidente, un ragazzo tanto giovane quanto capace ed ambizioso. Abbiamo parlato di polo di aggregazione, ricordato vicende storiche del passato del borgo e dell’importanza di riportare la gente a riunirsi con la bellezza della semplicità. L’infinitamente piccolo.

Più volte mi sono ritrovato a pensare che il mondo globalizzato di oggi non ha alcun valore se non siamo in grado di conoscere chi e cosa ci ha preceduti e riconoscere lo spazio e il tempo dei luoghi nei quali abbiamo messo le nostre radici. Possono menarcela quanto vogliono, ma la piazza su cui abito non sarà mai come una piazza di Istanbul, di Pechino, di Brema o di Malmö. In tutte e cinque potrebbe esserci un McDonald, uno store di Zara o un Foot Locker, ma non sarà mai lo stesso. E se bastasse cercare di stabilire un nuovo equilibrio tra il mondo ovattato della fermata dell’autobus ed il non-tempo di oggi scandito dai social che sfornano contenuti che non sono mai in grado di nutrirci davvero? Né frustrati al freddo in attesa; né hikikomori seduti su sedie sempre più simili a poltrone, come gli obesi del film Wall-E.