Come l’urlo di Tardelli

Se dovessi usare un’immagine per descrivere cosa significhi essere italiani sceglierei l’urlo di Marco Tardelli dopo il gol nella finale dei mondiali del 1982: dolore, frustrazione, riscatto e (a volte) liberazione.
Perché dolore e frustrazione? E riscatto da cosa?

Mi è capitato di leggere un’intervista in cui l’ex-giocatore della Juventus e della Nazionale racontava cosa gli passò per la testa durante quell’esultanza. Disse che fu un urlo liberatorio, in particolare nei confronti dei suoi genitori che non volevano che facesse il calciatore. Eppure ci è riuscito. E decisamente bene, considerando che è stato più volte campione d’Italia, d’Europa e del mondo per ben due volte. Ma prima di quella sera gli passavano sempre davanti agli occhi le immagini di suo padre che gettava la sua prima maglietta da calciatore liquidando la passione del giovane Marco come qualcosa di inutile e le parole di sua madre che pretendeva diventasse uno studente modello, ricco di conoscenza.

Tardelli ha dipinto una situazione che pochi possono dire di non aver mai vissuto. Un quadro tipico della nostra Italia. Un luogo dove il familismo e il senso di colpa, i più grandi tappi alla libera espressione e alla realizzazione dei nostri desideri come esseri umani, limitano la crescita individuale e di riflesso quella di tutta la comunità. È un fatto di giochi di specchi, di frequenze che vibrano tutte insieme in uno spazio ristretto e che necessariamente si incrociano e interferiscono. Un insulto, un alterco o in generale un comportamento negativo non rimane mai privo di conseguenze, ma crea inevitabilmente un meccanismo di causa-effetto. Queste azioni restano nell’aria. E ce le trasmettiamo.

Noi italiani, più di chiunque altro, sentiamo l’obbligo morale, che incombe fin dalla nascita, di attenerci a schemi, tradizioni, diktat che arrivano dalla storia del sistema familiare a cui apparteniamo. Se dovessero essere elusi comporterebbero il ”tradimento” del sistema stesso, di quella forma di controllo della nostra coscienza e della nostra espressività. A volte questo obbligo è più esplicito, come nel caso del buon Tardelli; a volte è subdolo, mascherato da una falsa libertà con la quale i ”carnefici” tentano di riportarti “sulla retta via” senza colpo ferire e facendo leva sull’arma più spietata di cui dispongono: il già citato senso di colpa. E quello è molto più difficile da snodare, perché agisce sotterraneo senza mostrarsi né fornirti mai la prova che sta lavorando contro di te. Una Sindrome di Stoccolma consanguinea nella quale giustifichiamo coloro che ci tengono al loro giogo perché, stando alla versione ufficiale, si stanno muovendo solo ed esclusivamente “per il nostro bene”.

Inseguire la nostra strada è il destino che siamo chiamati ad affrontare, il senso stesso della vita. Il quale, tuttavia, ad un certo punto ci consegna fra le mani il volante dell’esistenza. Quindi o abbiamo sviluppato il minimo di conoscenza necessaria a saperlo maneggiare oppure, al mancare del guidatore che fino a quel momento ci ha portati dove desiderava, rischiamo di schiantarci alla prima curva. Tutto questo non per rinnegare le origini, ma al contrario, per valorizzarle e aggiungerci del nostro senza imitare nessuno né vivere nell’illusione di appartenere a chissà quale stirpe eletta. L’origine è la spinta, la base di partenza che indubbiamente, come ogni sistema consolidato negli anni, porta con sé dei valori di riferimento validi, ma anche tante credenze, tanti miti da sfatare e catene da rompere.

Sta al singolo fare uso del suo vissuto, delle doti innate, dell’istinto e dei talenti che gli sono propri per costruire una vita autonoma, piena e realizzata. Nella quale sicuramente e inevitabilmente si sbaglierà, come è ovvio che sia, ma con la coscienza di essere stati gli unici artefici di quelle scelte. Solo a quel punto l’errore darà i suoi frutti e fornirà un insegnamento, perché quello stop lungo il percorso avrà il nostro marchio e sarà una delle tappe attraverso le quali, un giorno, ci guarderemo indietro, dicendo: “Meno male che ho seguito la mia testa e non quello che tutti mi dicevano di fare”. Non ci sarà senso di colpa perché non avremo tradito nessuno né rimpianto per non aver ascoltato la nostra voce interiore. Avremo la dimostrazione che il mondo ha continuato a girare anche senza il nostro intervento, che per molto tempo abbiamo considerato provvidenziale sbagliandoci, e si alleggerirà il peso sulle spalle che ci è stato consegnato a piene mani da chi, a sua volta e a suo tempo, non ha saputo prendere in mano la propria vita al momento opportuno.

Indosseremo il vestito che vogliamo noi, avremo il taglio di capelli che ci piace di più, sceglieremo quella casa e non quell’altra e il lavoro che più risuona nel nostro animo. E se ci andrà di giocare a pallone contro tutto e contro tutti, lo faremo. Saremo pronti ad affrontare i “Visto? Te l’avevo detto!” e avremo la prova definitiva di quanto quel sistema ci abbia assoggettati con la presunzione di adottare, generazione dopo generazione, rituali e schemi di pensiero sempre uguali su esseri umani sempre diversi.

E prima o poi arriverà anche il momento della vittoria nel quale capiremo che seguire la nostra stella polare ha dato i suoi frutti. Sarà come sperimentare un’esperienza nuova: rinascere, urlare e rispedire al mittente tutti i giochi messi in atto contro la nostra libera espressione. Scuotere le braccia e correre velocissimo ognuno per la propria strada.

Come nell’urlo di Tardelli.

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