“Prego!”
“Caffè lungo, ok.”
“Un Euro e dieci.”
“Carta?”
Con l’utilizzo di tre, quattro note musicali al massimo. Non è la prima volta. E non è soltanto la ragazza del bar. Spesso, quando ho a che fare con le persone durante i piccoli rituali di ogni giorno provo la stessa inspiegabile sensazione che ho quando a casa chiedo ad Alexa di spegnere le luci prima di andare a letto o di dirmi che tempo farà il giorno dopo. Quella vocina nel cervello che ti dice: “Bello, non illuderti, eh! Che comunque sia, per quanto le modalità di comunicazione siano simili, NON stai parlando con una persona!”.
Robot, insomma, che si diffondono in un allarmante vuoto di anime.
E come la ragazza del bar, tanti altri. Molti dei quali giovani.
Demotivati, tristi, come se per alcuni l’apatia fosse il nuovo e unico modo di affrontare la vita. Dico “per alcuni” con sollievo perché non si tratta della regolarità, ma l’idea di affacciarmi ogni giorno in un mondo in cui mediamente ci siamo auto-convinti di essere in trappola e di non poter fare nulla per rendere migliori le nostre vite mi fa riflettere.
La sete di tecnologia, anziché arricchirci, ci sta impoverendo. In seconda media la mia professoressa di Educazione Tecnica in un momento di sconforto perché la classe non era attenta sbatté sulla cattedra la stampella su cui si poggiava per poter camminare e ci disse, ad alta voce: “Lo sapete perché stiamo facendo tutto questo? Lo sapete a che cosa serve la tecnologia?! Serve a migliorare la vita delle persone! Perché non ci siano più donne e uomini che soffrono spaccandosi la schiena per decine di ore davanti ad un macchinario nelle fabbriche o nei campi, come di sicuro sarà capitato anche ai vostri nonni, per ottenere un raccolto! La tecnologia serve a migliorare la vita dell’uomo!”.
Quella frase mi accese come una lampadina e da quel giorno il mio amore per la tecnologia, per la quale già nutrivo una certa passione, aumentò a dismisura. Negli anni, però, mi sono accorto che da quando è entrata così prepotentemente nel quotidiano il suo scopo non è più quello di migliorare la vita, ma di manipolarla e in moltissimi casi di sostituirla. All’improvviso qualcuno molto avaro di profitti ha sentito la necessità di creare un metaverso perché evidentemente l’esistenza che abbiamo non basta più. Lì si faranno le stesse cose che già si fanno da questa parte, ma in modo più articolato. C’è la volontà di creare un mondo fatato nel quale rintanarsi per non vivere più in quello a cui siamo stati destinati, che ormai è sempre tutto uguale, piatto, monotono.

È l’epoca del Buongiorno un cazzo, dell’Odio tutti, delle magliette con su scritto Apathy. E non è il mondo in cui sento di essere cresciuto. Il passato ha regalato tonnellate di merda, è verissimo, e diffido dalla credenza del “si stava meglio quando si stava peggio”. Forse per il tipo di famiglia che ho avuto alle spalle, non lo so, ma sento che questo modo di affrontare la vita non mi appartiene. Eppure alla mia tavola non si è mai brindato a champagne né si è mai spalmato caviale. Anzi. Fino all’età di 12 anni ho vissuto in 50 metri quadri senza uno spazio mio e con l’armadio dei vestiti condiviso con mia madre. Quindi di sicuro non sono il radical-chic che ha vissuto nella bambagia e ora scende dal piedistallo accorgendosi improvvisamente che: “Oh, ma succede questo?”. Perciò non è una questione di benessere, anche perché ho sempre avuto la dimostrazione che si può essere ottimisti specialmente nelle difficoltà mentre speri di rialzarti per non avere più il patema di non riuscire a pagare una bolletta o una rata di affitto.
Ma avendo perso la speranza e soprattutto la fede, dove è proiettata la nostra mente? Verso quale obiettivo o prospettiva? Per “fede” non intendo la provvidenza divina auspicata dalle religioni nella quale bisogna “credere” affinché un Sommo ti ripaghi facendoti guadagnare la gloria extra-terrena. Quello è un misto di credenze distorte e di scaramanzia che non mi appartiene. Parlo piuttosto della fiducia nell’entropia, cioè la tendenza che ha l’universo di protendere verso il meglio, anche passando attraverso il male, e la certezza che la vita non è necessariamente una discesa verso gli inferi. Nel momento in cui ognuno di noi crea una realtà che ha quella conformazione, essa si consolida e diventa l’unica maniera di vivere. Non vediamo più il bicchiere mezzo pieno dell’esistenza, ma solo la mancanza, la carenza, il deprimersi delle energie e l’assopimento della speranza.
Nel corso degli anni mi sono accorto che nei momenti di grande difficoltà, alla fine è sempre successo qualcosa che, come una longa manus, arrivava a sistemare le cose. Finché capita una volta o due, non ci fai caso, ma quando iniziano a essere tante da dover utilizzare almeno due mani per contarle, forse può essere sufficiente a capire che vivere secondo uno schema depressivo, nel quale si è sempre vittima di qualcosa, non è la soluzione. Questa per me è la fede.
La famosa frase It’s better to burn out than fade away (meglio bruciare che spegnersi) ha senso soltanto in un’ottica nella quale la prospettiva di lungo termine non ha motivo di esistere. Ma essendo immersa in un universo entropico, la nostra vita, per quanto destinata al dissolversi delle forze fisiche, ci premia sempre, e principalmente con la capacità di saperla affrontare attraverso la saggezza, la conoscenza e l’esperienza.
Ma non mi stupisce che questa regola basilare del gioco della vita non ci vada più a genio. Siamo bombardati da modelli da imitare, da persone che ci sbattono in faccia la loro ricchezza, ostentandola. E noi, poveri scemi, che cosa facciamo anziché respingerla? La bramiamo. Vogliamo diventare come loro: belli, ricchi, famosi, perfetti. Come se quelli belli, ricchi, famosi e perfetti lo fossero per davvero. Hanno anche loro tanti cazzi a cui stare dietro, pressioni e aspettative da soddisfare continuamente. Non è la vita che ci mostrano fatta di filtri, bei vestiti, mare, costumi e spiagge incantate. Perché dietro quella foto scattata mesi prima spesso c’è una persona buttata sul letto con i capelli sfatti che si sta annoiando e che per compensare quel momento di dissoluzione vuole rivalutarsi e farsi rivalutare; perché dietro lo smartphone che ritrae quello scorcio incantevole ci sono decine e decine di turisti che fanno rumore e che tra un secondo invaderanno il campo “macchiando” quell’immagine (se non lo hanno già fatto prima dello scatto definitivo). Ho conosciuto e conosco diversi cosiddetti influencer, le cui vite ormai sono destinate 365 giorni l’anno a produrre contenuti per tenere viva e attiva la loro celebrità. Tale o presunta che sia. Vivono attaccati allo smartphone. Quando parli con loro spesso stanno controllando le notifiche, i like, i commenti o i follower. Questo appagherà anche il loro ego, ma a me non sembra una vita poi così felice…

Gioventù significa anche ricerca di un’identità in un momento di smarrimento. I ragazzi sono soli, si ritrovano all’interno di qualcosa di più grande loro e che è difficilissimo da affrontare. Lo sappiamo tutti, non raccontiamoci storie. Spesso non hanno punti di riferimento perché mamma e papà devono capire come far quadrare i conti e hanno accettato lavori che li spremono come stracci. Gli amici e il branco diventano l’unica comunità in cui potersi confrontare davvero. Ma è un confronto fra pari, quindi costruttivo solo fino ad un certo punto perché fatto tra persone che condividono le stesse difficoltà e le stesse insicurezze. I fari nel buio di queste anime sperdute sono i modelli che vogliono essere ammirati attraverso lo schermo OLED e che dicono loro: “Guardaci, siamo belli! Diventa come noi”. Peccato che il divario fra quell’immagine, il contesto nella quale è immersa e la realtà del giovane che la osserva è tanto da creare nella mente del ragazzo o della ragazza uno smarrimento tale che ad un certo punto qualsiasi cosa diventa lecita se serve a dare un senso all’esistenza e a risollevarsi dallo schifo in cui si ritrovano immersi.
Yacht contro autobus puzzolenti; hotel di lusso contro palazzi fatiscenti; isole e mari da urlo contro la periferia; abiti firmati contro i pantaloni della tuta del mercato. Secondo voi chi vince? La vita del giovane non ha sfumature, è binaria, perché la coscienza e il suo senso critico sono ancora tutti da modellare. Non ha l’esperienza, non ha la malizia delle zone grigie e quando arriva il giorno in cui, saturo, dice: “Basta con questa merda! Basta!” tutto può diventare lecito. Anche la strada peggiore, quella che porta a ribellarsi contro gli altri e a sfogare la frustrazione contro il malcapitato di turno. I primi passi in una mala-vita, insomma. E mi fermo qui, perché l’evolversi è facilmente ipotizzabile.
Quali sono le prospettive per una persona che riceve questo “schiaffo” in un’età così giovane e alla quale non viene insegnato il valore del bello e del giusto per sé e per tutti gli altri? Intorno vede confusione, sporco, disuguaglianza, menefreghismo, mancanza di gusto. Non si informa del mondo perché la scuola è già tanto se non crolla su sé stessa, guarda video senza alcun valore informativo, ripresi male e montati peggio, con scritte disordinate ovunque. Le challenge su TikTok, il gossip e le vicende dei programmi nazional-popolari diventano la materia in cui potrebbero laurearsi, tanto ne sono ferrati.
Forse i vari “Buongiorno un cazzo”, “Odio tutti” e “Apathy” e la gang sono solo due facce della stessa medaglia, che mostra da una parte chi è cresciuto nell’illusione, anche familiare, che tutto sarebbe stato facile, pronto, accessibile; dall’altra chi invece alle spalle aveva già qualche disaffezionato che ha confezionato per la sua progenie una realtà altrettanto distratta e strafottente, in cui “arrabattarsi” è l’unico modo per poter sopravvivere.
Non è il mondo in cui speravo di vivere, ma è l’angoletto di storia al quale sono stato assegnato e va bene così. Però non posso negare che questo dissolversi del tessuto sociale e questo malessere generalizzato mi crei dolore. Perché oltre al danno in sé c’è la beffa del sentirsi inerme. E non è una condizione che amo provare. Forse dovremmo tutti pensare, io in primis, che non è più il momento di rimanere a guardare Roma che brucia. Forse è il momento di scendere in città a prestare qualche piccolo soccorso.
Non cambierà le cose, ma magari farà in modo che la bilancia tra bene e male, giusto e sbagliato, non protenda troppo da una parte e ritrovi, nel limite del possibile, un equilibrio più stabile. Chissà, magari cominciando dal nostro metro quadrato di vita qualcosa è possibile. Quelli bravi e “studiati” dicono di sì.
Bisogna solo passare ai fatti.